LAS NENAS ENTREVISTAN: GIANNI GUARRACINO

Per la rubrica Las nenas entrevistan incontriamo il chitarrista, compositore e arrangiatore Gianni Guarracino 

Il chitarrista, compositore e arrangiatore Gianni Guarracino in una foto di Sonia Ritondale.

Ciao Gianni, è un grande piacere per noi intervistarti. Sei un chitarrista, compositore e arrangiatore napoletano. Hai collaborato con altrettanti grandissimi artisti tra cui Pino Daniele, Mia Martini, Zucchero, Eduardo De Crescenzo, Gino Paoli, Mango, Lucio Dalla, Renato Zero e Paco De Lucia. Come nasce questa tua passione che ha fatto nascere queste bellissime collaborazioni? Ti ricordi la tua prima chitarra? Che musica eri solito ascoltare?

Vi devo dire la verità? Non lo so! Mi rendo conto che sono passati degli anni e in un campo molto particolare, come quello della musica, in qualche modo devi essere un po’ un predestinato. Io studiavo e facevo tutt’altro. Mi sono appassionato alla musica da piccolo con le prime cose che venivano dall’Inghilterra: dai Beatles, dalle prime cose di Rock’n’Roll che arrivavano dagli Stati Uniti: da Elvis Presley ad altri artisti.

In quegli anni, per me era una passione che condividevo con gli amici. Poi, poco alla volta, ho incominciato a studiare: il mio primo maestro l’ho avuto ad 8 anni. Credo che mio padre mi abbia passato questa passione: lui era un grande appassionato di musica.

Non mi sono mai appassionato ad altri strumenti, solo alla chitarra (da piccolino prendevo una bottiglia e facevo finta di suonarla). La prima volta che ho sentito la chitarra classica ero sempre piccolissimo, c’era un pezzo di Bach suonato da Andres Segovia ed era la sigla di Tuttilibri. Credo che all’epoca ci fosse un solo canale, RAI1, e sentivo questa sigla e questa chitarra che a me arrivava proprio paradisiaca, magica; tu incameri delle percezioni…

Poi poco alla volta, negli anni, ho messo su un gruppo e dai Beatles siamo arrivati ai Led Zeppelin, a Jimi Hendrix e molti altri artisti rock. Al liceo avevo questo gruppo hard rock, eravamo abbastanza… vivaci. Erano poi gli anni particolari delle rivolte giovanili, gli anni di Woodstock in cui la musica significava anche tante altre cose: messaggio sociale, aggregazione.

A un certo punto, ho iniziato a studiare chitarra classica, portando avanti negli anni questo studio. Infatti poi ho continuato al conservatorio, dove mi sono diplomato. Nel frattempo, però, avevo sentito un signore che si chiamava Paco De Lucia, il più grande chitarrista di Flamenco. Io mi fregio di essere stato l’unico chitarrista italiano a stare con lui sul palco, è stata una grande emozione e un grande riconoscimento da parte sua per quello che stavo facendo!

Nella nostra rubrica, ci piace parlare di artisti che sono stati influenzati o legati alla musica spagnola e sudamericana. Come abbiamo anticipato, tu hai collaborato con Paco De Lucia, il più grande chitarrista di flamenco. Ci racconti come vi siete conosciuti? Ci piacerebbe conoscere il suo lato umano: ci racconti com’era? C’è qualcosa che ti è rimasto impresso del suo carattere? Ci puoi svelare qualche curiosità su di lui, sui vostri momenti insieme? 

Io l’ho conosciuto grazie ad un mio amico che era stato in Spagna, anche lui appassionato di Flamenco, amico che poi ha fatto tutt’altro, ha continuato da architetto, ma all’epoca era molto appassionato e studiava chitarra. Lo conobbe a Barcellona al festival di Tarragona. In qualche modo, aveva questo legame – contatto con Paco e me lo fece conoscere a Milano in occasione del Concerto del Trio (Paco De Lucia, Al Di Meola e John McLaughlin). Da allora è nata una amicizia con Paco, è stato molto facile per me diventargli amico, sai quelle cose che sembrano destinate, scritte. L’ho seguito in tournée con il loro pullman, sono diventato anche amico dei suoi fratelli. Mi hanno accolto. Da parte mia c’era un grande rispetto per loro e la loro musica.

Come aneddoto per farti capire lui come era fatto, posso raccontarvi di quando ci trovammo ad un concerto a Milano, dove lui stava con il suo gruppo e io con dei miei amici. Dopo il concerto, ci incontrammo. Lui, invece di andare a mangiare con il Manager, si informò: “Ma voi che fate?” ed io “Paco ci andiamo a mangiare una cosa?”. Lui guardò il manager e gli disse “Tu vai, io vado a con i ragazzi!”. E venne a mangiare con noi quindi e andammo a mangiare dei panini e alla fine volle pagare lui… Era di una totale semplicità e umiltà… Non ha mai fatto la star con me, ha fatto l’amico, mi ha invitato ad andare con lui in Messico, ad andarlo a trovare a Madrid, a casa sua… Era una persona anche molto “introspettiva”, uno che si tormentava abbastanza e me ne parlava della difficoltà di essere creativo, di migliorarsi … combatteva molto con la chitarra: la amava e l’odiava. Il fatto che non ti accontenti e non sai che trovi cercando, ti porta ansia… Lui fino all’ultimo ha provato a fare cose diverse e anche cose meno facili.

Con Paco De Lucia ti sei avvicinato al Flamenco e lo hai reso tuo pubblicando un album, il tuo primo album Dos Vias. Ce ne parli? Dove lo hai registrato?

Dos Vias è l’album che ha dato l’avvio alla mia carriera di solista. All’epoca, io suonavo con Eduardo De Crescenzo per il quale ero compositore, arrangiatore e chitarrista. Un po’ il discorso di non accontentarsi: nell’ambito della musica pop, io avevo raggiunto un po’ tutti i traguardi, suoanre con grandi nomi come Pino Daniele, Gino Paoli, Mia Martini e tanti altri. Lo stesso Eduardo De Crescenzo, una grande voce, un grande cantante.

Ecco, una volta che arrangi, scrivi, componi, suoni, fai concerti, stai in sala, a un certo punto arrivi a chiederti “Ma io chi sono davvero?”. Allora ho incominciato a buttare giù qualche idea e mi sono reso conto che avevo sempre aggiunto delle cose sia nella storia di Gino, sia a quella di Pino, di Eduardo e di altri artisti. Alla fine mi sono ritrovato ad avere una grande partita per la composizione e questo primo album, Dos Vias, ha avuto un po’ il significato di scegliere, perché tu hai due strade: quella del cuore, che non ripaga immediatamente in termini economici e lavorativi, è quella impervia, quella della scelta tua personale e profonda; l’altra strada è quella che hai già percorso, che già conosci e che ti sta facendo andare avanti.

Della stessa cosa me ne parlavano Paco De Lucia e suo fratello. Anche Paco, a un certo punto, ha smesso di accompagnare cantanti e ballerini e ha tirato fuori il suo primo album, si è concentrato sulla sua musica che non c’era ancora. Infatti è stato un po’ in difficoltà senza lavorare, perché aveva interrotto quel percorso. Per me è stata la stessa cosa, allontanarmi dalla musica pop e affrontare i discorsi compositivi di musica strumentale che è più complicata, dove c’è un know-how musicale per cui devi avere più conoscenza di composizione, di improvvisazione.

L’album l’ho registrato in una sala di un mio carissimo amico che all’epoca suonava con Fred Bongusto. Aveva una sala a Lucrino, un po’ fuori Napoli e abbiamo registrato questo primo disco. C’è stata una grande gioia! Nel primo album, c’erano molti ospiti tra cui anche Rino Zurzolo che suonava il contrabbasso nel brano Dos Vias. Purtroppo è venuto a mancare un paio di anni fa. C’era anche Frank Gambale, il chitarrista di Elektric Band Chick Corea, un grande innovatore pure lui. Così è nato questo primo disco e la mia storia personale che sta continuando negli anni.

Sei mai stato in Andalusia? Hai mai fatto un concerto in Spagna? Cos’è per te il Flamenco?

In Spagna non ho suonato, ma ci sono andato per trovare un amico che viveva lì. Con l’occasione, ho preso qualche lezione di tecnica di Flamenco. All’epoca non c’era YouTube ed era difficile avere certe informazioni, sono stato a Granada Siviglia dove ho potuto approfondire: in quegli anni, sentivo il dovere di capire un po’ questa musica, da dove e come nascesse, anche tecnicamente, a come eseguirla. La tecnica del Flamenco è molto diversa dalla chitarra classica.

Il Flamenco è una musica misteriosa di per sé. In Africa diventa una cosa, in America ne diventa un’altra, in Spagna un’altra cosa ancora, in Italia e a Napoli abbiamo anche noi la musica etnica molto caratterizzata. Come lo definirei? Innanzitutto è la musica di un popolo, è la musica prevalentemente dei gitani andalusi  ed è nata grazie alla commistione di musica araba con altre forme musicali. È unica, ha una melodia molto particolare che si avvicina ai canti arabi con microtonalità. Un ritmo meraviglioso che accompagna la danza del Flamenco, altrettanto travolgente. La musica è per loro un modo di comunicare delle emozioni, degli stati d’animo, c’è molta improvvisazione, controtempi: è una musica che non può non conquistarti!

Hai scritto anche Saudate che rappresenta un sentimento nostalgico, tipico dell’animo portoghese, difficile da definire. Ci racconti di questo pezzo?

Il mio viaggio musicale ha inglobato tanti generi diversi, io veramente amo la musica a 360 gradi: da quella classica a quella popolare, a quelle etniche, al jazz e non poteva mancare il Brasile. Anche il Brasile ha partorito una musica popolare, un po’ come gli Spagnoli. Una musica unica dove ci stanno tutti gli elementi: dal ritmo alla melodia e un’armonia molto sofisticata. I brasiliani hanno composto canzoni belle, ma anche non facili! Jobim è un esempio con capolavori non facili da suonare, con delle melodie bellissime. Poi in Brasile c’è una scuola meravigliosa di cantautorato e di musicisti. Per cui mi ha influenzato anche il Brasile e anche qui la chitarra è importante, tra chitarra flamenco e brasiliana c’è una parentela, ci sta il fatto che tu ti apri mentalmente e puoi inglobare cose brasiliane nel flamenco e viceversa. Molti artisti lo fanno, lo stesso Paco De Lucia ha suonato alcune cose di artisti brasiliani.

Una cosa che a noi incuriosisce è come si pensa alla canzone. Come nasce una tua canzone?  

Io questo l’ho visto anche quando stavo con Pino Daniele. Dopo,  tu lavori per perfezionare e mettere a posto la canzone, ma lei ti si presenta così: sei con la chitarra in mano e incominci a suonare come se ci fossero dei binari sui quali vai con la chitarra, è come se trovassi un filo: cominci con la melodia, poi metti l’accordo, poi trovi l’altra parte, poi il giorno dopo la riprendi e ci manca qualcosa che invece poi trovi, è come se la trovassi già fatta. Io mi ricordo con Pino: lui, dopo un concerto, se ne andava e scendeva la mattina con il pezzo finito. È come se la musica ti viene a trovare e ti devi rendere disponibile. Devi avere l’animo aperto, disponibile a questa cosa.

Gianni con Pino Daniele.

Hai collaborato anche con Sal Da Vinci e nel 1994 vinci con lui il Festival Italiano con la canzone Vera, da te arrangiato. La versione in lingua spagnola, cantata da Marcos Llunas, diventa famosissima in Sud America con più di 2.000.000 di copie vendute. Ti aspettavi questo successo?

No, perché è stato tutto molto difficile e complicato. È stata una vera e propria battaglia. Io ero sul palco con Sal Da Vinci a suonare Vera, di cui sono anche uno degli autori. C’era molto sforzo, molto sacrificio, perché non è facile mettere su una situazione competitiva, non è per niente semplice fare una canzone bella, forte, che può competere. Noi non ce l’aspettavamo di vincere! Poi abbiamo saputo che Marcos Llunas aveva preso due brani: Vera e Fai come vuoi e li ha inseriti nel suo disco, dove c’erano canzoni anche di Marco Masini. In Sud America è stato un grande successo, qui in Italia si è spinto poco e mi dispiace anche per Sal, perché il brano era molto bello, il testo è stato scritto da Franco Del Prete, che era batterista di Napoli Centrale, era uno showman. Vera è un pezzo di valore!

In Alma Partenopea, ritroviamo il tuo cuore napoletano. Cosa rappresenta per te questo album in cui hai collaborato con Leo D’angelo?

Questo progetto è nato per gioco. Leo era un mio grandissimo amico, è stato come me e con De Crescenzo, lui era il corista. Abbiamo incominciato a fare questi brani solo voce e chitarra ed è stato bello riscoprire proprio la loro essenza, la composizione, quando hai la chitarra acustica e voce, non hai nient’altro: hai la composizione e chi lo esegue, senza trucchi. Ci è piaciuto farlo diventare un disco e c’è anche un nostro inedito ‘O mare, scritto da me e da un amico. Alma Partenopea è un progetto parallelo a quello mio personale, strumentistico.

Perché Napoli è sempre Napoli? Cosa rende unici voi napoletani?

 Non lo so, è un po’ il discorso del Flamenco. In certe zone del mondo, ci sono delle musiche speciali, Napoli è una di queste zone. Napoli ha fatto la storia. Due anni fa feci un concerto in Turchia con il mio gruppo e facemmo un paio di classici napoletani tra cui Tu dimmi quando di Pino Daniele e la gente si è alzata in piedi, ci hanno fatto la standing ovation. La gente non capiva il napoletano, non conoscevano l’artista, ma la canzone è arrivata lo stesso. C’è un mistero nella musica buona, conquista l’animo della gente. Napoli è un porto speciale.

A causa della pandemia, non si sono potuti fare concerti ed è venuto a mancare uno degli elementi più importanti di un musicista: il contatto e il confronto con il pubblico e gli ascoltatori. Siamo stati tutti chiusi in casa e in contatto solo grazie ad internet. Tu come hai trascorso le lunghe giornate in lockdown? Hai scritto delle canzoni? Hai magari iniziato a scrivere una tua biografia, un libro sulla tua vita ricca di esperienze e collaborazioni?

Questa cosa del libro mi è venuta in mente, ma non solo per la pandemia, guardandomi indietro e dicendo: “Mamma mia, ma quante cose che ho fatto, ho camminato veramente tanto e ho incontrato tanta musica bella e artisti importanti nazionali e internazionali“. Quindi si, mi è venuto in mente: “ma perché non raccontare la musica attraverso il mio percorso?”. Non escludo che, magari, nei prossimi tempi mi potrò pure dedicare a un progetto del genere, che poi sarebbe bello anche per me, per ricordare.

Durante la pandemia sono stato a casa, ho studiato composto molto, infatti ho un sacco di miei brani nuovi. Speriamo passi questa bufera e possiamo riprendere una vita un po’ più normale, anche per gli artisti per i quali è stata tragica.

A proposito di collaborazioni, ma è proprio vero che hai anche incontrato Ray Charles ?

Ho avuto il piacere giusto di salutarlo. Premetto che per me lui è stato il numero uno della musica soul, della black music. Per me è stato insuperabile, il più grande. Ho avuto questa bellissima opportunità di aprire un suo concerto in cui io suonai da solo: feci 5 brani nella rassegna che facevano a Montesarchio, un paese vicino Napoli., una rassegna jazz e aprì un suo concerto. C’erano quattro mila persone davanti a me ed ero anche abbastanza impaurito. Erano i tempi della musica di Dos Vias in cui stavo iniziando a suonare da solo. Ebbi il piacere di incrociarlo e salutarlo sul palco, stava entrando con il suo gruppo.

 Ci dai la tua definizione di musica?

La musica è uno dei pochi miracoli che esistono sulla terra!

La musica è l’unica cosa che riesce a mettere d’accordo la gente, farla sentire unita e uguale, far sentire come apparteniamo tutti ad una stessa radice e per me è questo è miracoloso. In questo periodo buio la musica è l’unica che può dare speranza. Quando tutto sta andando un po’ in “scatafascio”, la musica mantiene ancora una direzione.

 Il tuo progetto futuro? Un altro album?

Si, sarà un album, il mio quinto album, uscirà entro Natale e ha già un titolo Mysterium (misterioso), parlando della musica. Più passa il tempo e più la radice della musica mi appare sempre più misteriosa. Il fatto che esiste è un dato di fatto, ma da dove viene e come si manifesta è un mistero. È un atto di riconoscimento per la grandezza della musica!

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